ESPERIENZA ESTETICA DISSEMINATA NELLO SPAZIO Sconfinamento ambientale

Leggeri e trasparenti, disseminati nello spazio, e dallo spazio medesimo determinati, gli oggetti-pittura di Candida Ferrari coinvolgono in una sfida totalizzante colore e segno, oltre i luoghi deputati del quadro, dissolvendo le categorie canoniche del supporto che sta dietro e dell’immagine che vi si accampa, in un’esperienza di globalità. Da non confondere, va subito aggiunto, con l’occupazione ambientale dell’environment classico, le possibili coincidenze col quale riguardano solo l’esito finale, nel momento, soprattutto, della mise en scène espositiva, per la quale opportunamente Cerritelli ha parlato d’una realtà che «non è pura esibizione di segni preesistenti», ma «nuova costruzione linguistica».

Certo, come ancora sottolinea il critico, i lavori degli ultimi anni dell’artista sono «protesi verso un’idea di sconfinamento ambientale». Però entro il rigo della singolarità dell’opera, del suo essere particolare, nel cui ambito precipuo Ferrari ha saggiato la realizzabilità di ipotesi trasgressive di rovesciamento dello statuto della pittura come operazione sul piano. Appuntandosi non solo sulla rappresentazione prospettica con intenzionalità mimetica di ascendenza rinascimentale, ma sulla concezione stessa della superficie-realtà imposta dai cubisti e portata alle conseguenze estreme da quei pittori neoplastici, suprematisti, costruttivisti e astratti che l’artista ha studiato puntigliosamente tra gli anni Sessanta e Settanta. Quando già – al di là del rigore metodologico che tutti i recensori, del resto fondatamente, esibiscono – la giovane Ferrari, appena uscita da Brera, apparve attratta non tanto dal versante analitico asseverativo della tradizione concretista, quanto dalla ricerca anticonvenzionale alla percezione visiva ed alla psicologia della forma sottese. La dinamica del vissuto era il suo vero obiettivo, con le implicite connotazioni di mutazione, varietà, soggettività. Già concludendo l’Accademia, del resto, Ferrari aveva rivelato la sua, pur ancora imprecisa, inclinazione scegliendo per la tesi di diploma in Storia dell’arte Atanasio Soldati, agli schematismi d’un compositivismo non figurativo irriducibile, ed anzi campione, con Licini e Fontana, d’una flessibilità di linguaggio che con le ragioni della geometria coniugasse quelle dell’emozione. Con una fedeltà alla pittura, oltre tutto, che in quell’inizio di decennio trovava conferma, sia pur in una dimensione al-tra, nella pittura analitica: di cui non v’è traccia immediata nel lavoro di allora dell’artista (nè, conseguentemente, nei suoi biografi, che sottolineano invece i nessi con la Gestalt e con l’ambiente della Bauhaus), ma che dovette avere il suo peso indiretto, con ripercussioni da individuare forse lontano nel tempo, ad esempio nell’applicazione alle interazioni superficie supporto.
Significativo è ad ogni modo che nella sua prima vera uscita pubblica, in una personale alla Libreria Feltrinelli di Parma, fossero esposti dei collages chiaramente finalizzati alla stimolazione attiva attraverso complesse articolazioni della forma-struttura, non solo non idealizzata o contemplata, ma neppure staticamente offerta in una improbabile, autonoma concretezza. Come infatti puntualmente faceva notare Quintavalle, nella presentazione in catalogo, rilevando dopo aver, appropriatamente e per primo, richiamato le radici nel «Kandinsky del periodo Bauhaus ed anche nel Klee del periodo “didattico’ di Weimar, quello più attentamente sperimentale» – che «una immagine, un collage tra questi di Candida Ferrari riesce a volte a sconvolgere, e proprio in forza della sua struttura e del violento contrapporsi dei suoi colori; studiare, accanto l’uno all’altro, i pezzi di questo si-tema, la loro serialità, potrà dare modo allo spettatore di verificare su di se un modello di reazioni differenti che, fisso lo schema generale, genera il diverso rapporto dei colori».
Linea di tendenza presto confermata – nel ‘77, alla Galleria del Teatro dell’Assessorato Cultura del Comune di Parma – in un’altra personale, all’insegna del titolo rivelatore della «prospettiva minata». Con affondi problematici di cui scrive la stessa autrice, nel 1979, rispondendo alla domanda sulle «aree e tempi» e sulle «motivazioni» del suo fare: «Ho continuato la mia ricerca lavorando sull’ambiguità delle forme, usando la prospettiva in modo esatto esteriormente, ma capovolgendone interiormente, e col paradosso dei colori, le regole». E con l’affiorare d’una tensione che rivelava l’anelito ad una libertà più sciolta di cui avvertiva la presenza Marzio Dall’Acqua, scrivendo nel testo che l’esposizione accompagnava che se «i richiami evidenti sono con tutta la letteratura sulla prospettiva, il senso dell’operazione è più sottile, più scopertamente ironico: …il rigore postulato è fasullo; …il primo sintomo di una follia cova segretamente nel profondo di queste opere». Intuizioni che Emma Bernini – della Ferrari la testimone più fedele – raccorderà, a conferma, ai risultati successivi, quelli che ormai fanno parte della storia attuale dell’artista, che in questa nuova antologia ha un ulteriore, e per Milano inedito, riscontro. «Ed è proprio il tema dell’emozione o della “follia’” – nota infatti la Bernini, nel catalogo della personale in Palazzo Massari, a Ferrara, nel 1985 – «che esplode nella mostra «Complicità dell’immaginario» alla Consigli Arte nell’83: una apparizione di rossi quasi visionaria composti su lastre di plexiglas variamente modellate», ove «il distacco dalle opere precedenti è solo apparente: certo non si ritrova più lo schema geometrico di partenza, sostituito da campiture sciolte e libere, mentre la stessa superficie viene piegata secondo le diverse valenze espressive.
Ma il rigore di fondo, la convinzione di una necessaria organizzazione dello spazio, l’esperienza sui processi della percezione, ritornano per informare una pittura fortemente emotiva ed emozionante, ma al tempo stesso controllata e meditata». Controllo meditato, aggiungo, riprendendo le osservazioni iniziali, precipuamente calato nel campo definito dell’opera, con rimarchevoli esiti di interesse linguistico, oltre che estetico ed espressivo, proprio anche in conseguenza di quelle innovazioni di linguaggio, al cui interno Candida Ferrari cerca e trova l’invenzione. Il che già indica l’accantonamento del supporto inteso limitatamente come piano sopra il quale agire, in quanto quel piano l’artista piega e modula, e taglia, e fianco arrotola in colonne tortili, o in irregolari pilastri, e in accidentate stalattiti e stalagmiti. E su di esso sì dipinge, ma secondo modalità tutto particolari: non solo perché pennella il retro delle sue superfici, e neppure solo perché queste lasciano trasparire quelle, come un tempo nella pittura su vetro, in realtà pittura «sotto vetro»; perché, invece e soprattutto, la stesura dei pigmenti intimamente si correla, anzi si fonde, con il morbido modellarsi a caldo del plexiglas in accidentati, mossi percorsi, che con il segno colore interferiscono dinamicamente, provocando instabilità percettiva (ecco i frutti maturi delle antiche sperimentazioni gestaltiche) ed un caleidoscopico trasformarsi, e palpitare, dell’immagine, per lo spostarsi oggettivo di chi guarda o dell’oggetto, ma anche per il variare della luce, della sua incidenza, della sua intensità.
Il fenomeno fisico-ottico e la reazione percettiva si traducono così in esperienza estetica. Fuori dei rigorismi meccanici dell’arte costruttiva e programmata degli anni Sessanta, ma, come sarebbe ormai superfluo ribadire, con il permanere di un’interna, logica organicità. Ed inoltre con il trasferimento dell’immagine dalla costrizione del quadro ad un continuum spaziale, e quindi anche temporale, che si propone come sostanza dell’opera. Anche a livello dei significati, sempre tutt’uno col segno-colore-luce, con la superficie-supporto, con l’oggetto-ambiente, che con la liberazione fantastica, la gioiosità, la lirica effusione, oppure, in altri casi, con la tensione emozionale, la intensa passionalità, la forte espressività che questi lavori veicolano totalmente si identificano. Come sempre, del resto, nell’arte che merita d’esser definita tale; e con inedita propositività di soluzioni formali.

Luciano Caramel 1987

Le opere