EFFETTI MAGICI DEL COLORE Passione creativa

Risale al 1983 la prima apparizione delle fiamme poetiche di Candida Ferrari. Fu in una mostra a Parma, allestita negli spazi della Consigli Arte, che prese sostanza l’intuizione di Goethe per una pittura vivente di puro colore.

Nel calco invisibile del plexiglas la gestualità aniconica della nostra artista assumeva i connotati della forma e della durata: come a dire che l’ideologia della materia si faceva realtà di pittura. Da allora, da quella scelta così radicale da non ammettere ritorni, prese avvio una ricerca ancora aperta: motivata, in ogni sua fase, da una specificità, quella pittorica. Dopo il plexiglas, materiale rigido, comparve l’acetato, con la sua delicata flessibilità. E l’arte di Candida Ferrari si fece, insieme, plastica e frontale: e, però, rimase sempre pittura. Per questo dissidio in termini il lavoro di Candida si ribalta lungo il declivio del moderno mito: così come lo intende Cassirer quando avverte una precisa antinomia nel carattere esteriore dell’esperienza (anche di quella artistica) che si mette a confronto con le sembianze interiori della fede. Ma il suo potere è proprio lì, nel suo procedere su un filo di rasoio, in un difficilissimo equilibrio, insidiato dai colpi imprevedibili di un giudizio di tendenza che non prende in esame comparato le ragioni di quella scelta: del plexiglas, come dicevo, e poi dell’acetato. L’idea di base che muove l’inesausto spirito di ricerca di Candida è l’aspirazione a toccare, con le sensibilissime antenne del colore, il nucleo più segreto della forma. Ed è una motivazione che si collega all’esigenza, sempre avvertita dall’artista, di procedere, si può dire in parallelo, ad una investigazione, ad ogni svolta più ravvicinata, sugli elementi primari del linguaggio. Ed ecco, dopo le fiamme d’esordio, sugli impulsi di un’espressività a tipo gestuale, che il discorso formale si declina per le vie tracciate da altra antinomia: quella fra l’idea e il segno. Ricordate i rossi bagliori della mostra dell’83? Erano le vampe di una passione creativa che di lì a poco si sarebbe solidificata in lastre e in colonne, per flettersi, nello stesso momento linguistico, in variazioni di acetati più che trasparenti e in carte sottilissime.
Ricordo una mostra a Ferrara, negli ampi spazi di palazzo Massari: le lastre fissate alle pareti, le colonne calate al centro dell’ambiente, le carte sospese al soffitto. Un’occupazione totale dello spazio: un discorso unitario proiettato al più ampio raggio d’incidenza. E Candida Ferrari si presenta, ora, in questa mostra che è, per lei e per la sua creatività, un momento (che non si può che chiamare cruciale) di verifica. E lo fa con il lancio di un’idea del tutto nuova: dopo lo spazio inteso nella sua dimensione più completa (totale, ho detto), c’è l’approccio alla frontalità della pagina, alla superficie e al limite del libro.
C’è, ancora, il principio di trasparenza della materia, c’è la rifrazione, dagli effetti magici, del colore. Ma, insomma, sono libri quelli che Candida Ferrari allinea sul piano di una lettura tutta percettiva e non ancorata, certo, alla successione lineare della stampa inventata da Gutemberg. E qui, al posto dei caratteri mobili che fissarono la lunga stazione della scrittura, c’è la scoperta, nel sistema stratificato della nostra artista, di una potenzialità quasi subliminale che dischiude spazi minimi, ma illesi, alla fantasia creativa della modernità.

Gianni Cavazzini 1983

Le opere