LA MISURA, POETICA DEL TEMPO Molteplicità

Pittrice Candida Ferrari lo è sempre stata. Anche quando, nel corso del decennio precedente, il suo percorso di ricerca l’ha portata a frequentare luoghi e forme appartenenti, per tradizione, al dominio della pratica scultorea.

Le colonne che si sono susseguite in quegli anni, infatti, dicevano di un processo di verifica intorno al proprio complesso bagaglio espressivo, di uno scandaglio, rigoroso insieme e poetico, non solo degli strumenti, ma anche delle figure, dei modi di apparizione e di appropriazione dell’immagine. Sculture erano allora, per convenzione; ma come tarlate dall’interno da un dubbio fondante, che ne minava la lettura più banale, epidermica. Di ciò, non tanto testimoniava la pur radicale scelta di avvalersi del plexiglas – di una materiale per sua costituzione estraneo alla tradizione alta della scultura -, e neppure il dilagare di un colore steso in maniera evidentemente pittorica, quanto il rifiutarsi di quelle forme a prendere un’evidenza plastica stabile, ad accettare, si starebbe per dire, il loro destino ultimo a “farsi corpo dei luoghi”. Certo, era (ed è tuttora) la lezione magistrale dei Fontana e degli Arp, delle pertinenze disciplinari frequentate e poi rovesciate di senso, a sovrintendere a quelle realizzazioni, una storia di confini continuamente ricollocati, conosciuti e non accettati, di esperienze compiute sempre sul limite, di attraversamenti argonautici del possibile. Eppure, la volontà di non prendere corporeità, di lasciare l’occhio a vagare tra le pennellate, le stratificazioni di colori, quel trasformare la materia in pellicola, in schermo insieme avvolgente e trasparente, rendeva le colonne di Ferrari – almeno a parere di chi scrive – come un vagheggiamento neppure troppo celato di una distensione infinita della pittura sul mondo, che solo momentaneamente trovava il suo inveramento nella forma conchiusa della scultura. Tanto che, per l’appunto, la forma si apriva il più possibile, sino al limite dell’invasione spaziale, di una pratica dell’installazione che, sebbene mai frequentata con intenti comuni a quelli di altre ricerche correnti nel corso degli anni Settanta e Ottanta, è appartenuta anche al bagaglio espressivo di Candida Ferrari. Una colonna in plexiglas, non dipinta, modellata e libera di farsi attraversare dalla luce, dallo sguardo, come un ostacolo minimo ma significativo alla percezione oggettiva del reale, segna il momento determinante di passaggio al ciclo di lavori odierno. Come se, abbandonato per un solo istante il colore, Ferrari avesse avvertito la possibilità di aprirsi a un’avventura nuova, senza tracce di netta discontinuità con la precedente, eppure destinata ad assumere una forma diversa, di più concentrata intensità. Ciò che, solo pochi anni avanti, andava dispiegandosi lungo le pareti delle colonne, insinuandosi nei brani di realtà che il plexiglas faceva trasparire, ora accade in un unico luogo, in una porzione di spazio maggiormente definita, che ha come massima espansione superficiale quella del foglio di acetato più ampio tra i tanti sovrapposti a creare l’immagine. La pittura, ora, agisce in maniera diametralmente opposta a quanto avveniva a proposito della scultura: prende corpo, là dove proprio a ciò si rifiutavano le colonne. Simile è il processo concettuale, comuni le basi che fondano la poetica: la centralità del materiale nella costituzione non solo fisica dell’opera; il processo percettivo come processo di velature, di differimento della visione; il rifiuto dell’immagine unica a favore della molteplicità, prima dei punti di vista, oggi dei toni; la necessità di non prevedere l’immagine conclusiva, di far sì che essa sia la risultanza “’inattesa’ di un processo, oggi persino più evidente; e ancora, il farsi dell’opera come processo ininterrotto, che ha nuovo inizio quando l’opera stessa esce definitivamente dalle mani dell’autore. Due fattori sembrano però determinanti per individuare il distacco reale di questi lavori dai precedenti. Anzitutto la scelta cromatica: il passaggio dai colori violenti, di estroversa espressività tipici dei plexiglas alle tonalità più meditative, caste quasi, degli acetati, trascorrenti dai grigi plumbei a quelli argentati, dai colori della terra ai riflessi bronzei di una luce aggallante alla superficie da insondate profondità, questo passaggio, si diceva, indica l’emergere chiaro di una coscienza avvertita dello specifico pittorico, di un possesso pieno e infine disteso di uno strumentario che ha trovato la via di un’espressività tutta interiore. Allo stesso modo, nelle opere presentate in questa occasione, si accentua un aspetto da sempre sotteso al pensiero di Ferrari, quello del tempo dell’opera.
“La misura del tempo”, titolava l’ultima personale da Vanna Casati a Bergamo, dove Ferrari presentava otto pezzi, a proposito dei quali Caramel scriveva: “…vanno guardati nella direzione che dal primo diaframma va al fondo, attraverso una serie di successivi strati che nel loro interferire e sommarsi costituiscono l’opera”. L’opera, detto altrimenti, come immagine del tempo – di realizzazione e di percezione – di un tempo che non si dà come estensione, bensì come profondità. La sovrapposizione, la stratificazione – figure centrali dell’immaginario di Ferrari – sono allora le misure dei segni e dei colori, del senso della loro necessità. Velare un gesto è modificarne totalmente la lettura, e quindi il senso, è rifiutarne il significato più immediato (e spesso più banale, ormai) per farlo rivivere come momento di un percorso creativo più lungo e complesso, e dare così un tempo nuovo, differente all’opera. Uno stratificarsi dei tempi che riporta alla mente – depurato da ogni retorica – un senso diaristico del fare che nulla ha da spartire con il malinteso intimismo di questo genere, ma che, invece, testimonia di un procedere inesausto della riflessione sul lavoro e, al contempo di una pratica severa e concentratissima, di scavo emotivo e fabbrile. Senza ostentazione, lasciando filtrare tra i fogli la luce e la misura, poetica, del tempo.

Walter Guadagnini

Le opere